Filosofia del teatro o teatro filosofico? (03_2023)

Filosofia del teatro o teatro filosofico? Intervista a Bianca Iannaccone

by Sarah Virgi

Marzo 2023 – Filosofia e teatro sono legati nella tradizione occidentale fin dall’antica Grecia. La commedia e la tragedia, in particolare, hanno sempre occupato un posto centrale nell’indagine e nell’analisi filosofica. Non solo, ma il teatro stesso è stato utilizzato come veicolo per trasmettere un’argomentazione filosofica sulla moralità. Questo mese esploriamo le intersezioni tra queste due discipline cruciali con Bianca Iannaccone. Filosofa e attrice, mette alla prova i limiti di questo rapporto dall’interno. In questa intervista, ci parla in particolare del suo punto di vista sull’opera del grande drammaturgo francese Molière e del modo unico in cui mostra una divertente e, al tempo stesso, amara critica filosofica dei valori morali del suo tempo, costruita attraverso un elaborato gioco teatrale argomentativo. Inoltre, spiega anche l’impatto che questa analisi filosofica ha avuto sulla sua pratica performativa come attrice.

Su Bianca Iannaccone

Bianca Iannaccone ha studiato filosofia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e si è specializzata con una tesi di laurea sul pensiero filosofico di Jean-Baptiste Molière, grazie anche ai suoi studi parigini alla Sorbonne. Il teatro la conquista all’età di tredici anni. Durante gli anni dell’Università fonda la sua compagnia teatrale (Compagnia dell’Alchimia) di cui è regista per tre anni. Fra i suoi ultimi lavori come attrice: Go. Go. Go. di Aleksandr Sokurov, Le lacrime amare di Petra Von Kant, La casa di Bernarda Alba e Tacchini Selvatici di Tiziana Bergamaschi e “Bianca e Leggera” di Noela Ballerio. Ha lavorato per otto anni presso la Triennale di Milano e ora lavora per la Fondazione Gaslininsieme di Genova.

L’Intervista

Sarah Virgi: Come filosofa, lei si è concentrata soprattutto sull’aspetto filosofico delle commedie di Molière. Cosa l’ha affascinata di più delle sue commedie? E fino a che punto ritiene che siano filosofiche?

Bianca Iannaccone: Il lavoro sull’analisi della drammaturgia di Molière mi ha condotto a scoprire il teatro di Molière come un esempio peculiare di scrittura morale, intesa come tradizione filosofico-letteraria che, utilizzando tematiche, generi e stili espressivi diversi, prova ad orientare attraverso l’esperienza il soggetto verso ciò che deve fare per il proprio percorso di soggettivazione, elaborando delle pratiche, atteggiamenti morali in grado di renderlo migliore. Infatti, il testo drammatico di Molière contiene al suo interno tre argomentazioni filosofiche, caratterizzate da riflessioni, atteggiamenti e intenti morali proposti da Molière attraverso l’evento teatrale. La scrittura morale molièriana, lungi dall’avvalersi della forma della filosofia tradizionale basata su un sistema da dimostrare con delle argomentazioni logiche, presenta una struttura esperienziale di tipo drammaturgico: essa entra nel vivo dell’esistenza dei personaggi nella loro dimensione scenica, caratterizzata da uno spazio, un tempo, una relazionalità e una ritmicità in costante dinamismo. Inoltre, la gran parte delle commedie di Molière (escluse quelle scritte unicamente su esplicita richiesta del sovrano Luigi XIV per qualche grande evento di corte), al di là della loro trama specifica, esibiscono delle riflessioni e argomentazioni morali fondamentali per la modernità. 

Per approfondire questo concetto, direi che il primo intento morale che possiamo individuare nell’argomentazione drammatica di Molière è quello che Bernard Tocanne chiama «una morale della responsabilità». Quest’ultima trae la sua fonte d’ispirazione dalla cultura mondana e galante contemporanea a Molière, basata sulla virtù-chiave dell’honnête. Questa prima argomentazione morale, espressa dalle commedie di carattere, che normalmente sono le più conosciute e rappresentate di Molière (basti pensare a L’Avaro, Il Malato immaginario, Il Borghese gentiluomo), presenta, attraverso la struttura drammaturgica del riso e della commedia, il recupero della morale aristotelica della mesotes come l’etica più giusta e adatta alla cultura dell’honnêteté. Infatti la comicità delle commedie di carattere è provocata dalla classica contrapposizione molièriana tra l’honnête homme, l’uomo virtuoso, onesto e prudente che vive la propria quotidianità assumendo un atteggiamento ragionevole e un comportamento misurato con se stesso e con gli altri, e l’uomo affetto dal vizio monomaniacale, da un’ossessione che s’impossessa della sua persona, da una rigidità inflessibile che lo rende folle e irragionevole. Lo schema drammaturgico tipico di ogni commedia di carattere molièriana mostra che la direzione sana e virtuosa propria dell’honnête homme, grazie all’adozione di un atteggiamento etico equilibrato, vince e trionfa su quella irragionevole del vizio lasciato ai suoi eccessi smisurati. L’effetto comico mostra la contraddizione del vizio, che il pubblico percepisce appunto come ridicolo e insostenibile, e mostra la ragionevolezza mondana della virtù, lontana da moralismi enfatici e a loro volta contraddittori. La riduzione a contraddizione mediante il riso è una forma tipicamente teatrale di argomentazione, ma la si ritrova sia in autori del canone filosofico tradizionale, come Platone (gli effetti comici di certi passi dei dialoghi, provocati dall’ironia e dalla maieutica socratiche), sia in autori dall’ironia sferzante come Nietzsche. Questa prima argomentazione filosofica, condotta a favore dell’honnêteté, è sicuramente l’unica tesi morale di Molière ad essere conforme agli ideali e ai valori della società francese seicentesca dell’Ancien Régime, con cui egli dovette sempre confrontarsi mostrando un certo riconoscimento e una qualche adesione a quel regime di verità imposto dal potere assoluto del Re Sole.  

L’argomentazione morale più conformista propria delle commedie di carattere viene, tuttavia, superata da altre due peculiari riflessioni morali presenti nelle tre commedie più rivoluzionarie e radicali del pensiero di Molière, la trilogia costituita da Tartufo, Don Giovanni e Misantropo

Jean-Baptiste Molière. Author: Pierre Mignard I, Public domain, via Wikimedia Commons
URL: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Pierre_Mignard_-Portrait_de_Jean-Baptiste_Poquelin_dit_Moli%C3%A8re(1622-1673)-_Google_Art_Project(cropped).jpg

Al di là della narrazione dei fatti del Don Giovanni e del Tartufo, il personaggio di Don Giovanni e l’ipocrisia di Tartufo, indotta in contraddizione nella vicenda della famiglia di Orgone, sono la realizzazione drammatica di un’etica libertina, in cui la rilevanza pratico-morale per la vita dell’individuo è quella di una costante tensione moderna all’emancipazione da paradigmi teorici e pratici ritenuti assoluti e incontrastabili. Lo sviluppo logico interno ai testi del Don Giovanni e del Tartufo è razionale, caratterizzato da una grande coerenza logica, sebbene non riguardi in alcun modo la razionalità dimostrativa tipica di un sistema filosofico. Questo tipo di progresso logico, soprattutto all’interno del Don Giovanni, ci permette di affermare che quest’opera è forse la più geniale di Molière, in quanto capolavoro perfettamente costruito di comicità logica e lineare. Se le commedie del Tartufo e del Don Giovanni sono due facce della stessa medaglia per ciò che concerne la critica all’ipocrisia, i protagonisti delle due opere però, Tartufo e Don Giovanni, non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro. Don Giovanni è infatti un personaggio assolutamente originale, moderno e, per questo, immediatamente e severamente sanzionato dalla censura: egli è colui che aderisce a quel modo di intendere l’esercizio della ragione e di interpretare le norme etiche che va sotto il nome di libertinismo filosofico. Le caratteristiche principali del Don Giovanni di Molière coincidono perfettamente con le scelte teoriche e pratiche che sono alla base del più importante movimento filosofico-culturale del Seicento francese, in lotta con la tradizione: l’ateismo come miscredenza nei confronti di ogni forma di superstizione religiosa, la piena autonomia dell’individuo rispetto ai dettami della religione e alle regole convenzionali della morale tradizionale e la subordinazione della scelta dei mezzi al raggiungimento di scopi concreti ben determinati. Il personaggio del Don Giovanni di Molière non è un finto libertino, nel senso di uno dei tanti nobili francesi dei Seicento debosciati, sciupafemmine, frequentatori di taverne che trovavano ingegnoso e comodo nascondere i loro vizi sotto il volto della filosofia epicurea, mascherando così il libertinaggio dei costumi con il libertinaggio del pensiero. Al contrario, egli è un libertino della filosofia perché non descrive affatto la sua condotta come mero deviamento, rispetto alle regole della morale, o come un’infrazione inconsapevole, casuale o non finalizzata. Don Giovanni descrive, piuttosto, la sua condotta come un modo per realizzare, con rigorosa coerenza, un modello di comportamento che aspira a essere più sincero e più vero di quello che è dettato solo dal conformismo e dall’ipocrisia. Come era già emerso in termini differenti ne L’ingannatore di Siviglia di Tirso de Molina, la figura di Don Giovanni, fin dalla sua comparsa in scena, appare del tutto irriducibile a quella interpretazione, così a lungo accreditata dalla tradizione, del grande amatore, del seduttore irresistibile, dell’infaticabile rubacuori, dedito esclusivamente ai piaceri del sesso e privo di ogni moralità. Lungi dall’essere una “macchina da sesso”, egli si presenta piuttosto come uno spirito militante, assertore della superiorità della ragione sulla superstizione, demolitore delle false credenze e dei fanatici valori di una società ingabbiata da un cristianesimo stretto e usato come instrumentum regni. Molière, come discepolo di Gassendi, una delle figure forse più rappresentative del movimento del libertinage érudit, riafferma nel suo Don Giovanni tutta l’importanza di un uso della ragione e del calcolo matematico al di fuori di ogni condizionamento metafisico o religioso e di una condotta pratica che si affranchi dalla sottomissione ad ogni pregiudizio imposto dogmaticamente. 

Il Tartufo rappresenta la medesima propensione filosofica del drammaturgo al libertinage érudit secondo la medesima tensione argomentativa logica e lineare del Don Giovanni, servendosi però di una peculiare argomentazione drammatica con cui l’ipocrisia viene indotta in contraddizione attraverso il personaggio di Tartufo. 

È dunque evidente come le specifiche argomentazioni drammatiche delle due opere più censurate di Molière, Il Tartufo e Il Don Giovanni, siano entrambe votate a smascherare il fariseismo di certi componenti del partito devoto della Chiesa francese del XVII secolo che, invece di manifestarsi per ciò che essi sono realmente, condannano le dissolutezze altrui. Il drammaturgo mirava a colpire quella forma di devozione intransigente, così diffusa e penetrante nella società dell’Ancien Régime, che finiva per coincidere con l’obbligo di rispettare una morale oppressiva e una fede religiosa in una forma quasi superstiziosa. Al trascendimento e alla non rassegnazione nei confronti di una realtà, che si proclama necessaria e immutabile nelle sue istituzioni e nei suoi modelli teorici e di comportamento, tende anche l’etica della possibilità proposta nella drammaturgia del Misantropo, la quale, attraverso il personaggio di Alceste, propone una riflessione e un intento morale che apre ad una nuova e possibile práxis nella vita per ogni soggetto umano.

SV: Perché ha scelto proprio Molière e non altri nomi del teatro? Cosa c’è di innovativo e attuale nella commedia di Molière?

BI: Ciò che mi ha spinto a concentrare la mia ricerca filosofica su Molière è stata l’esigenza di indagare il teatro, o meglio la drammaturgia teatrale, come esempio caratteristico di scrittura morale, con una sua particolare peculiarità rispetto, per esempio, al romanzo.

Infatti, è stato molto interessante lungo questa ricerca trovare molteplici riferimenti ai romanzi di Rabelais e Cervantes e, al tempo stesso, indagarne le rispettive specificità e differenze. Soprattutto per ciò che concerne Cervantes, è evidente come Molière inserisca nel proprio teatro alcuni aspetti propri del Don Chisciotte della Mancha. Per esempio, la pluralità delle voci di questo romanzo, espressa dal dialogo continuo che Cervantes ha immortalato nella storia della letteratura tra Don Chisciotte e il suo scudiero Sancho Panza, riecheggia il dialogo scenico dei personaggi nel teatro di Molière. Inoltre, il rapporto tra Don Chisciotte, che dà sfogo alla sua sfrenata immaginazione che trasforma i mulini a vento in giganti, e Sancho Panza, che tenta di richiamare il padrone alla realtà con il suo realismo terra-terra, sembra lo stesso che Molière mette in scena, nelle sue commedie di carattere, tra l’uomo ragionevole, il virtuoso e il folle, l’uomo affetto dal vizio. Ma soprattutto, il gesto eroico di Alceste nel rivoltarsi contro la realtà costituita richiama gli atti temerari dei personaggi moderni di Rabelais e, qualche decennio più tardi, dell’eroe moderno della follia, Don Chisciotte. Eppure, nonostante la rivendicazione morale di questi romanzi sia la medesima di Alceste, la loro differenza specifica svela la verità più profonda del teatro: infatti, mentre il romanzo è scritto per essere letto, il testo teatrale è scritto per essere realizzato sulla scena. Il teatro ha tutta una peculiare dimensione corporea che si gioca nella rappresentazione scenica: questa è e sarà sempre la grande ineguagliabile potenza dell’evento teatrale rispetto a qualsiasi romanzo. La verità originaria del teatro, da quando è nato con la tragedia greca, è il corpo. Come scrive Jean-Luc Nancy, corpo e mondo sono cooriginari, in quanto il mondo è “lo spazio della comparizione dei corpi, della loro attrazione e repulsione”. Non appena c’è un mondo, “ci sono corpi che s’incontrano, si distanziano, si attirano, si respingono, si mostrano gli uni agli altri”. E il teatro è la cessazione del segreto, se il segreto è quello dell’essere dei corpi, perché l’evento teatrale si fa scena di corpi esteriori che rivelano la loro interiorità: si tratta del “‘mondo come teatro’, in quanto verità, proprio come e proprio perché il corpo si rivela la verità dell’anima”. Proprio per questo, rileva Nancy, “Amleto può dire: ‘Gli attori non sanno mantenere un segreto. Dicono tutto’”.

Naturalmente questa realtà del teatro come esempio caratteristico di scrittura morale non riguarda solo Molière ma anche altri grandi autori teatrali classici e moderni, primo fra tutti Shakespeare.

Tuttavia ho sentito l’esigenza di indirizzare la mia ricerca sulla scrittura teatrale del commediografo francese rispetto a quella del drammaturgo inglese, forse perché Shakespeare è da sempre considerato dalla tradizione come un autore “filosofico”. Infatti le tragedie shakesperiane costantemente riproposte e rappresentate a teatro sono spesso proprio quelle impregnate di tesi filosofiche espresse nei personaggi e negli sviluppi logici interni ai testi shakespeariani, mentre  la sorte delle commedie di Molière nel teatro contemporaneo è ben diversa. Ad eccezione del teatro francese dove la tensione filosofica presente nel testo drammatico è stata certamente compresa e valorizzata, nel teatro contemporaneo, almeno in quello italiano, le commedie maggiormente rappresentate di Molière sono precisamente quelle di carattere, in cui sembra che l’argomentazione morale presente in esse sia poco valorizzata sulla scena teatrale, se non addirittura non colta. Il Don Giovanni e Il Tartufo non vengono quasi mai rappresentati perché non adeguatamente compresi nel loro fondamentale e rivoluzionario intento filosofico-morale, così come l’intento etico del Misantropo, commedia che, se viene rappresentata, è messa in scena soprattutto per il fascino della sua lirica, associata spesso alla poesia di Shakespeare, e non per la possibile proposta esistenziale insita nella struttura dei suoi versi drammatici. Questa inconsapevolezza della portata filosofica del teatro di Molière è dovuta all’opinione erronea, diffusa in una certa cultura “intellettualistica”, secondo cui, dal momento che le commedie molièriane sono scritte in un linguaggio comico, colloquiale, talvolta grezzo, ciò significa che non hanno un regime di senso e di verità profondo al loro interno. 

Al contrario, sono proprio lo statuto della commedia, la struttura e i meccanismi del comico, lo stile ordinario ereditato da Rabelais, che tenta di affrancarsi dai classicismi, a realizzare la filosoficità del teatro di Molière, cui ho cercato di ridare dignità con questa ricerca. 

In primo luogo, anche grazie all’aiuto dell’analisi di Bergson sulla struttura drammaturgica delle commedie di Molière, ci accorgiamo che la vera protagonista di gran parte di esse è una molla invisibile, una «molla morale», il Vizio esterno che si appropria di un personaggio e lo spinge come una marionetta ad agire in modo meccanico, secondo un copione automatico.

Ne Il Malato immaginario, per esempio, quando nella celebre scena comica la medicina offesa minaccia per bocca del medico Purgon tutte le malattie ad Argante, ogni volta che quest’ultimo si solleva dalla sua poltrona per cercare di fermare le maledizioni di Purgon, vediamo il medico scomparire un momento, come se qualcuno lo ricacciasse fra le quinte, per poi riapparire subito da capo, come mosso da una molla, con una nuova maledizione, cui segue la medesima esclamazione, ripetuta sempre, di Argante, che scandisce questa piccola scena:

«PURGON: Che voi cadiate nella bradipepsia. 

ARGANTE: Dottor Purgon!

PURGON: Dalla bradipepsia nella dispepsia. 

ARGANTE: Dottor Purgon!

PURGON: Dalla dispepsia nell’apepsia. 

ARGANTE: Dottor Purgon!

PURGON: Dall’apepsia nella lienteria. 

ARGANTE: Dottor Purgon!

PURGON: Dalla lienteria nella dissenteria. 

ARGANTE: Dottor Purgon!

PURGON: Dalla dissenteria nell’idropisia. 

ARGANTE: Dottor Purgon!

PURGON: E dall’idropisia alla perdita della vita, dove vi avrà condotto la vostra follia». 

Qui assistiamo, come spesso accade nel teatro di Molière, a delle ripetizioni: la ripetizione dell’esclamazione del protagonista, Argante, che è appunto il “Malato immaginario” affetto dal vizio dell’ipocondria e la ripetizione del movimento del Dottor Purgon che torna in scena costantemente per lanciare maledizioni ad Argante. 

Queste ripetizioni ci inducono a ridere perché sono degli espedienti teatrali volti a far ridere il pubblico dei vizi dei personaggi (l’ipocondria di Argante e la corruzione della medicina approfittatrice).

Le Malade Imaginaire – Frontispice de l’édition de 1682. Author: Pierre Brissart. Source: BNF. Via Wikimedia Commons. URL: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Le_Malade_imaginaire_frontispice.jpg

SV: Oltre alla carriera di filosofa, lei è anche un’attrice professionista. La pratica della recitazione ha avuto un ruolo nella sua analisi filosofica? Che ruolo ha avuto?

BI: Sicuramente gli anni dell’università sono stati fra i più preziosi e arricchenti fino ad ora per la mia ricerca, proprio per questa mia duplice veste di ricercatrice di filosofia e di attrice di teatro.

Innanzitutto, mi sono resa conto sulla mia pelle che fare teatro è una pratica filosofica proprio perché il teatro è l’apparire di corpi che avanzano sulla scena e che fanno accadere un evento, l’evento di Don Giovanni, l’evento di Tartufo, l’evento di Alceste: un’unica totalità costituita dalla scena di plurali possibilità, che non conosce separazione tra corpo e mente così come tra attore e spettatore. Inoltre, interpretando i classici ruoli femminili del teatro shakesperiano, come Ofelia e Lady Macbeth,  e vedendo rappresentato in scena a Parigi il Misantropo  e Don Giovanni, sono arrivata alla consapevolezza che la narrazione delle varie vicende è sia nel teatro di Shakespeare che di Molière funzionale a un dialogo costantemente rinnovato con il pubblico, che realizza durante la rappresentazione scenica quella condizione di accesso alla verità come logos scritto e compiuto nell’ergon, direbbero gli antichi greci (la verità che si svela nell’opera d’arte). Forse allora, Molière, così come Shakespeare, fa (nel senso di drao come quel fare originario della lingua e del mondo greco) qualcosa di più che scrivere moralmente come altri scrittori morali del canone filosofico-letterario: egli agisce moralmente sulla scena testimoniando e donando un senso che può divenire verità condivisa e accettata solo grazie all’accoglienza del pubblico. Solamente nel rapporto sempre aperto e in divenire tra l’attore che si dona incondizionatamente, generosamente e lo spettatore che riceve coraggiosamente quel dono, l’evento teatrale può configurarsi come evento morale vero e difficile da vivere, proprio perché esso è un dialogo incessante tra un “io” e un “tu”, dove, come c’insegna Emmanuel Lévinas, l’altro “io” non può essere ridotto alla mia esistenza bensì richiede risposte e responsabilità verso di lui e verso tutti gli altri esseri umani.

SV: E d’altra parte, la filosofia e il suo occhio analitico l’hanno ispirata nel suo lavoro di attrice, per esempio nell’interpretazione di un particolare personaggio o di una particolare opera teatrale?

BI: Assolutamente sì, la filosofia e il teatro sono due facce della stessa medaglia: vivono parallelamente l’una accanto all’altra influenzandosi a vicenda, almeno per me è così da quando ho iniziato l’università.

Forse il ruolo e l’interpretazione del personaggio che più è stato ispirato dall’analisi critica della filosofia è il personaggio di Adela, la protagonista de La Casa di Bernarda Alba, l’ultima opera che Federico García Lorca scrive prima della sua morte, il testamento del suo pensiero e della sua poesia. Innanzitutto, il pensiero critico mi ha insegnato che, prima di studiare le battute di un personaggio teatrale, per capire l’intenzione di ogni sua singola parola, è necessario studiare il contesto storico dell’opera stessa. Così come nel caso di questo dramma scritto da Federico Garcia Lorca nel 1936, ambientato in un villaggio rurale della Spagna del 1930 alla soglia della guerra civile. 

Studiando l’ambientazione storica, ho realizzato che quest’opera di Lorca è incentrata sull’analisi del ruolo della donna nella Spagna degli anni ’30 e sulla sua condizione di sottomissione : è proprio da qui che il mio personaggio, Adela, prendeva le mosse. Nell’ambientazione scarna e asfissiante di una casa in lutto, Adela, la figlia minore, è innamorata perdutamente di Pepe il Romano, il giovane più bello del villaggio che ricambia il suo sentimento ma che presto sposerà la sua sorella maggiore.

Il personaggio di Adela è un ribollire di energia vitale e sessuale: ella si butta totalmente fra le braccia del suo innamorato perché ha bisogno di sentirsi viva e di sfuggire al periodo di lutto di otto anni in casa imposto dalla madre, in seguito alla morte del padre. 

La mia regista, Tiziana Bergamaschi, ha guidato nella recitazione me e le altre attrici che interpretavano le sorelle, la mamma e la nonna di Adela anche attraverso lo studio del flamenco, che come danza della tradizione spagnola esprime proprio questo: la libertà!

Ballando il flamenco il mio corpo ha realizzato in scena che Adela è uno spirito libero, a prescindere dall’amore per Pepe il Romano: il suo primo movimento non è l’amore ma è la rivoluzione, la lotta contro le regole e l’imposizione di sua madre.

E qui lo sguardo analitico della filosofia non può non farci associare Adela agli altri eroi moderni di Molière, come Alceste e Don Giovanni, ma anche agli eroi moderni di Shakespeare (come Cordelia nel Re Lear), il cui connotato caratteristico è proprio quello tipico del pensiero moderno : la lotta all’emancipazione da una società che obbliga a sottostare a costumi e convenzioni che non vengono riconosciute come « proprie » e nelle quali non ci si riconosce come individui. 

E, come spesso accade, questi eroi moderni, incapaci di vivere rinnegando la loro identità, si ribellano arrivando a sacrificare loro stessi per vivere la propria libertà.

Proprio queste sono le ultime parole declamate da García Lorca poco prima della sua esecuzione da un plotone d’esecuzione fascista durante la guerra civile di Spagna : 

« Che cos’è l’uomo senza libertà ?

Dimmi, come posso amarti se io non sono libero? Come posso offrirti il mio cuore se lui non è mio ? ».

L’intensità e la potenza di significato di questi versi le ho realizzate veramente quando li ho declamati proprio nel teatro di Jan Fabre ad Anversa. 

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